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29 January 2020
A pochi giorni dal Gala Stelle Best Shop Awards, che da tre edizioni si avvale del prezioso patrocinio di Federazione Moda Italia – Confcommercio, il Presidente di Federmoda Renato Borghi presenta una panoramica dei nuovi scenari che il mondo web, i social network e il canale e-commerce aprono oggi per il dettaglio di moda. Bilanci, sfide, opportunità.
Da un’indagine del 2019 commissionata da Federazione Moda Italia a Format Research è emerso che i principali fattori della crisi dei negozi del settore moda e/o di ostacolo alla loro crescita sono: pressione fiscale (82%), burocrazia (67,1%), concorrenza sleale delle catene (57%), dei colossi del web (51%), dei Factory Outlet Center (41%), costo dei pagamenti elettronici (40,7%), contraffazione (28%). Quanto alla pressione fiscale, l'ultimo Rapporto della Banca Mondiale evidenzia come il “Total Tax Rate” dell'Italia – cioè il rapporto tra la somma del carico fiscale e contributivo sostenuti da un'impresa e i profitti – sia pari al 59,1%. In sostanza, è come se un'impresa pagasse 591 euro di tasse su 1.000 euro di profitti. Un fattore che, unito al costo del personale, agli affitti e alle spese generali dirette ed indirette e non ultimo al calo dei consumi, ha generato una crisi che è sotto gli occhi di tutti.
E si sbaglia chi pensa sia un problema dei soli commercianti. Basta fare un giro per le strade delle nostre città per accorgersi delle saracinesche abbassate, ma anche delle evidenti ricadute a livello non solo di mancati introiti per i Comuni - che, di conseguenza, avranno effetti anche sulla quantità e qualità dei servizi pubblici - ma anche di relazioni sociali, professionalità e servizio, sicurezza, illuminazione, pulizia e decoro, nonché decremento del valore degli immobili nei contesti urbani.
In questo quadro, va aggiunta la concorrenza sleale delle vendite online che esiste e viaggia su un canale preferenziale dal punto di vista della tassazione. In attesa di una soluzione globale, siamo molto soddisfatti per l'introduzione dal 1° gennaio 2020 in Italia della Web Tax, la «tassa sui servizi digitali» (fortemente sollecitata al Governo dalla nostra Confcommercio e richiesta da Federmoda), che introduce un'aliquota del 3% sui ricavi dell'anno precedente dei colossi del web che hanno almeno 750 milioni di fatturato globale e 5,5 milioni di euro di incassi derivanti dall'online in Italia. Ne beneficeranno anche le casse dello Stato dal momento che il gettito previsto già nel 2020 sarà di circa 710 milioni di euro. Ma non basta. È imprescindibile una regolamentazione del web per operare nel mercato con le stesse regole e proporzionalità di tassazione.
Quanto ai fenomeni percepiti come concorrenza sleale, va poi considerato che sempre più brand iniziano a vendere direttamente o attraverso marketplace online i propri prodotti. Secondo il 55% delle imprese della distribuzione questa situazione comporta una perdita significativa in termini di vendite. I prezzi applicati dai negozi multibrand di qualità sono dettati da listini dei produttori, con l’impossibilità – spesso addirittura contrattuale – di poter competere perché la formazione del prezzo al consumatore finale è data da un modello di business stabilito dai fornitori a monte del processo di vendita, mentre gli operatori commerciali sottostanno a regole contrattuali e di mercato nonché di leale concorrenza.
È evidente che chi produce e mette in vendita direttamente sul mercato dei prodotti potrà definire autonomamente i prezzi che magari non terranno conto semplicemente della qualità ma agiranno su altri fattori. Così come sono sempre più schizofreniche le politiche di pricing di brand e catene monomarca che vendono direttamente o indirettamente su outlet e online, senza chiara evidenza che si tratti di prodotti fuori produzione, che presentino lievi difetti non occulti, di fine serie, rimanenze di magazzino invendute relative almeno alla precedente stagione, prototipi/campionari. Basterebbe, come indicato in alcune leggi regionali, l’evidenza di idonea documentazione cui sia possibile risalire alla data dell’ultima serie prodotta o altra indicazione ad hoc. Ed i consumatori potrebbero avere maggior trasparenza attraverso un’etichetta.
Auspichiamo, in tal senso, che il Ministero dello Sviluppo Economico, che sta lavorando al progetto pilota “La Blockchain per la tracciabilità del Made in Italy”, con il supporto di IBM e la collaborazione di associazioni e aziende produttive della filiera del tessile italiano, vada a garantire anche la fase finale dedicata alla corretta informazione al consumatore sul tipo di acquisto effettuato e del negozio in cui è avvenuta la vendita, per un processo sempre più consapevole e trasparente. La tracciabilità con la tecnologia “blockchain” infatti garantisce informazioni sulla standardizzazione, l’immutabilità e l’autenticità di dati e documenti, la loro sicurezza.
Federazione Moda Italia - Confcommercio consiglia sempre di comprare nei negozi di fiducia: i negozi tradizionali, sotto casa, dove si possono trovare qualità e consigli su misura e anche controllare la presenza di prodotti della stagione e le relative variazioni di prezzo durante il periodo dei saldi o nelle promozioni.
A chi acquista sul web – quel consumatore che è più vulnerabile perché attratto esclusivamente da acquisti d’impulso dettati principalmente dalla convenienza del prezzo, anche se è risaputo che nessuno regala alcunché tantomeno online - consigliamo di prestare attenzione alle indicazioni sulle composizioni fibrose dei prodotti tessili e delle componenti delle calzature (presenti in etichetta e da riportarsi obbligatoriamente anche sui siti di vendita online) e agli estremi dei venditori che devono essere in evidenza on line anche al fine di avere risposte e garanzie sui prodotti in base alla legge in vigore in Italia e cioè il Codice del Consumo. Maggior tranquillità, in tal senso, si avrebbe se alle spalle di un'attività di e-commerce ci fosse un negozio fisico che può garantire maggiore trasparenza e fiducia anche nei rapporti di vendita sul web e per evitare di incorrere in incauti acquisti di prodotti magari contraffatti.
Ricordiamo, poi, che i resi rappresentano un vero problema delle vendite online in quanto la legge, a differenza di quanto avviene nei negozi fisici dove i capi si provano e si scelgono direttamente in store, prevede un tempo di 14 giorni per il ripensamento e il conseguente cambio dei prodotti acquistati esclusivamente sul web.
Se un buon 47% di negozi del settore si dichiara non interessato ad acquisire conoscenze digitali, la direzione che sta seguendo il mercato è comunque rappresentata dalla multicanalità.
Attualmente, però, in Italia il 36,2% delle aziende del dettaglio moda ha un sito internet e solo il 14,4% fa attività di e-commerce, principalmente attraverso il proprio sito web e, in parte, anche su marketplace. Più di un operatore su due (53,1%), per vendere online, utilizza esclusivamente il proprio sito di e-commerce, mentre il 21,7% utilizza esclusivamente marketplace; la principale motivazione che spinge ad utilizzare anche i siti aggregatori per vendere è la visibilità presso i consumatori finali. Va precisato, però, che fare e-commerce nella moda vuol dire attrezzarsi e organizzarsi in maniera professionale, prevedendo investimenti in risorse economiche ed anche umane. Fondamentale è dotarsi di un personale dedicato che si occupi delle informazioni, delle indicazioni obbligatorie sui prodotti (es. etichettatura dei prodotti tessili e delle calzature; degli estremi del merchant/venditore) e sui diritti di recesso, dell'evasione degli ordini, della gestione dei reclami e dei resi, che sappia parlare più lingue e che sappia gestire packaging, spedizioni e logistica. Per questo, come Federazione Moda Italia-Confcommercio siamo al fianco delle imprese per accompagnarle con percorsi di formazione su vendita assistita, marketing sensoriale, psicologia di vendita e neurovendita, vendere agli stranieri nei fashion store, visual merchandising, il negozio di moda nell'era di internet e la comunicazione social divenuta sempre più importante per il presente e per il futuro.
A proposito di comunicazione social, i numeri degli utenti sono più confortanti di quelli che possiedono un sito internet. Il 67,1% delle imprese commerciali del settore utilizza i social network, tra queste quasi il 97% ha una pagina Facebook e il 39,4% un profilo Instagram. Più marginale l’utilizzo di YouTube (2,6%), Twitter (2,1%), LinkedIn (1,7%) e Snapchat (1,1%). Il 38,5% aggiorna i contenuti almeno una volta a settimana.
C’è ancora tanto da lavorare… Per acquisire conoscenze digitali i dettaglianti di moda ricorrono principalmente ai consigli dell’esperto (22,3%), a corsi di formazione (21,2%), a fiere ed eventi (13,3%), a incontri informativi (6,7%), a libri e riviste specialistiche (5,9%).
In un’ottica di multicanalità che prevede un’evoluzione delle attività commerciali sia online che offline, è peraltro emblematico il fatto che, nonostante la crisi, ben il 78,7% delle aziende del dettaglio moda non abbia introdotto alcuna innovazione in store. Chi, invece, ha deciso di innovarsi ha puntato prevalentemente sulla profumazione d’ambiente (12,9%), le etichette elettroniche (7,2%), le piattaforme di programmazione di musica (5,2%), le etichette con il “QR Code” per fornire ai clienti maggiori informazioni sul prodotto (4,8%). Seguono le vetrine digitali, i magazzini flessibili, i sistemi di rilevazione dei flussi di persone avanti le vetrine, i sistemi di controllo degli accessi e dei movimenti all’interno del punto vendita, i light box con immagini di qualità fotografica retroilluminate con cornice/struttura in alluminio, e per ultimo i sistemi di CRM per personalizzare la vendita a clienti e fidelizzarli.
Renato Borghi, Presidente Federazione Moda Italia - Confcommercio
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